Alla presentazione della ricerca per l’educazione affettiva e cognitiva alla legalità promossa dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Palermo su nove scuole medie della città io c’ero. Come psico-pedagogista della scuola “Cesareo”, uno dei docenti osservatori previsti dal progetto. Ed ero anche a villa Niscemi, dove il 21 maggio scorso è stata data una restituzione dei dati raccolti attraverso la ricerca. Ho avuto bisogno di qualche settimana per far sedimentare prima l’indignazione, poi il profondo senso di amarezza, dovuti ai titoli a effetto che mi hanno ferita due volte, come docente e come cittadina palermitana, perché evidenziano solo una verità parziale.
Infatti, quanto affermato il 22 maggio nell’articolo a firma di Marco Nuzzo (che la criminalità, in alcuni quartieri, diventi l’unica alternativa al vuoto, l’unica possibilità di essere qualcuno e che quindi la mafia, per alcuni alunni, possa essere recepita come un’organizzazione che offra sicurezza e intermediazione) è sicuramente un dato di realtà riscontrato in un campione (rappresentativo?) della nostra scuola palermitana. Dato, peraltro, del tutto noto agli operatori scolastici onesti e alla società civile attenta nelle sue analisi: dire che sia stata un’indagine dell’Università a farcelo sapere è proprio un’ingenuità, è solo scoprire, come afferma il prof. Augusto Cavadi nel suo articolo del 4/6, che il re è nudo. Che poi l’assessore alla Trasparenza ne addossi l’intera responsabilità alla scuola, è però francamente inaccettabile. Non perché i docenti non abbiano il dovere di fare autocritica sulle didattiche antimafia via via utilizzate, ma perché la responsabilità di tali condizionamenti risale soprattutto ai modelli proposti dalla famiglia, dal quartiere, dalla società e dalla politica, che ha addirittura teorizzato la possibilità/necessità di convivere con la mafia. Ma c’è un'altra verità che non è stata fatta conoscere. Ci sono tutti quegli alunni che, anche in un quartiere come Ballarò, ritengono che Peppino Impastato sia un eroe perché si propone agli altri per le proprie qualità e il proprio coraggio; ci sono tanti ragazzi che sono pervenuti a un’idea avanzata di legalità come rispetto per l’altro, anche quando l’altro non c’è; in alcune scuole ci sono ragazzi dotati di filtri culturali che li hanno resi capaci di leggere la realtà in modo complesso. E questo viene affermato non da me, ma dal report finale del progetto “Adesso, ancor più di quanto accadesse in passato, le scuole sono lasciate sole, abbandonate, non aiutate nel loro principale mandato istituzionale”. Michael Moore, premiato a Cannes con la Palma d’oro, ha citato la frase di Lincoln “Se date al popolo la verità, il popolo è salvo”. Mi permetto di suggerire a giornalisti, ricercatori e politici di tentare di essere onesti e dare la verità, non una verità parziale che serve solo ad aggiungere altra amarezza e sofferenza nell’anima di quei siciliani che qualcosa contro la mafia hanno tentato di farla.
Infatti, quanto affermato il 22 maggio nell’articolo a firma di Marco Nuzzo (che la criminalità, in alcuni quartieri, diventi l’unica alternativa al vuoto, l’unica possibilità di essere qualcuno e che quindi la mafia, per alcuni alunni, possa essere recepita come un’organizzazione che offra sicurezza e intermediazione) è sicuramente un dato di realtà riscontrato in un campione (rappresentativo?) della nostra scuola palermitana. Dato, peraltro, del tutto noto agli operatori scolastici onesti e alla società civile attenta nelle sue analisi: dire che sia stata un’indagine dell’Università a farcelo sapere è proprio un’ingenuità, è solo scoprire, come afferma il prof. Augusto Cavadi nel suo articolo del 4/6, che il re è nudo. Che poi l’assessore alla Trasparenza ne addossi l’intera responsabilità alla scuola, è però francamente inaccettabile. Non perché i docenti non abbiano il dovere di fare autocritica sulle didattiche antimafia via via utilizzate, ma perché la responsabilità di tali condizionamenti risale soprattutto ai modelli proposti dalla famiglia, dal quartiere, dalla società e dalla politica, che ha addirittura teorizzato la possibilità/necessità di convivere con la mafia. Ma c’è un'altra verità che non è stata fatta conoscere. Ci sono tutti quegli alunni che, anche in un quartiere come Ballarò, ritengono che Peppino Impastato sia un eroe perché si propone agli altri per le proprie qualità e il proprio coraggio; ci sono tanti ragazzi che sono pervenuti a un’idea avanzata di legalità come rispetto per l’altro, anche quando l’altro non c’è; in alcune scuole ci sono ragazzi dotati di filtri culturali che li hanno resi capaci di leggere la realtà in modo complesso. E questo viene affermato non da me, ma dal report finale del progetto “Adesso, ancor più di quanto accadesse in passato, le scuole sono lasciate sole, abbandonate, non aiutate nel loro principale mandato istituzionale”. Michael Moore, premiato a Cannes con la Palma d’oro, ha citato la frase di Lincoln “Se date al popolo la verità, il popolo è salvo”. Mi permetto di suggerire a giornalisti, ricercatori e politici di tentare di essere onesti e dare la verità, non una verità parziale che serve solo ad aggiungere altra amarezza e sofferenza nell’anima di quei siciliani che qualcosa contro la mafia hanno tentato di farla.
(La Repubblica/Palermo: 10 giugno 2004)
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