Sono bastati solo undici giorni di assenza dall’usuale tragitto casa-scuola, perché i primi timidi virgulti, spuntati qua e là tra i rami a inizio aprile, fossero ormai divenuti un mare di foglioline tenere che vestono di verde allegria l’esemplare palermitano di Sophora japonica “albero deciduo a portamento eretto, vagamente somigliante alla Robinia, originario di Cina e Giappone, introdotto in Europa già nel XVIII secolo, che raggiunge lentamente i 5–20 m di altezza, dal portamento elegante, con il tronco diritto dalla corteccia screpolata secondo linee tortuose. I rami, negli esemplari più giovani, sono di colore verde-brillante, le foglie pennate sono composte da 11-13 foglioline pelose, ovali-lanceolate, acute, di colore verde-scuro superiormente e glauco sulla pagina inferiore, con il margine intero e nervature che si prolungano oltre l'apice, con belle fioriture estive.”
Adesso, passare per largo Arrigo Testa è una festa degli occhi e del cuore.
Nel variegato universo dei libri per ragazzi, non è facile trovare testi con tre requisiti fondamentali: la capacità di suscitare l’interesse dei giovani lettori, contenuti di spessore e una scrittura dignitosa, chiara e curata. Oh, Harriet!, del professor Francesco D’Adamo (Giunti, Firenze, 2018, € 12) possiede tutte e tre le qualità e racconta, con stile piano e scorrevole, una storia che cattura l’interesse degli adolescenti della fascia d’età che frequenta la scuola media.
Il testo, tra l’altro, risponde quasi naturalmente anche alle tre caratteristiche che, a suo tempo, il grande Alessandro Manzoni indicava come necessarie per una buona opera letteraria: “Il vero come soggetto, l’utile come scopo, l’interessante come mezzo”. Oh, Harriet! infatti narra vicende realmente accadute, le racconta in modo intrigante e convincente e la sua lettura lascia il lettore un po’ migliore di come lo aveva trovato.
Nonostante il professore D’Adamo prediliga occuparsi di uomini e donne esemplari della contemporaneità, con questo testo ha raccontato una storia di due secoli fa: quella di una donna minuscola, debole, malaticcia, che ha lottato tenacemente per dare la libertà ai neri, che – sino al 1865 - negli stati del sud degli USA, vivevano come schiavi nelle fattorie dei padroni bianchi. La protagonista del libro è una donna nera, Harriet Tubman, nata presumibilmente nel 1822 nello stato americano del Maryland da due schiavi e quindi anch’essa schiava.”Io non so quand’è il mio compleanno – disse la vecchia - E non so nemmeno quanti anni ho esattamente. Mi dicono che sarei nata nel 1822 e che quindi adesso avrei novant’anni, ma chi può dirlo? (…) Come fa uno schiavo a sapere che anno è? (…) Hai capito qual è la differenza tra un bambino bianco e uno nero, ragazzo? Il bambino nero non festeggia il complenno”. Dopo aver subito soprusi di ogni genere, nonostante fosse debole e malata, Harriet riuscì a fuggire e poi cercò con ogni mezzo di restituire la libertà ai suoi familiari e a molti altri negri, passando alla storia come la "Mosè degli afroamericani": infatti lottò dapprima per abolire la schiavitù e, in seguito, per far ottenere il diritto di voto alle donne.
La vicenda di Harriet ci viene raccontata in modo davvero avvincente, immaginando un’intervista alla Tubman ormai molto vecchia da parte di un certo Billy Bishop, un giovane giornalista dell’Herald Tribune di New York, intervista fatta mentre il mondo era col fiato sospeso per la notizia dell’affondamento del Titanic, nell’aprile del 1912.
L’autore di “Oh Harriet, nel corso di un incontro con gli alunni di una scuola media di Palermo, ha sottolineato che quasi tutti i suoi romanzi narrano storie vere: in precedenza infatti aveva narrato la vicenda di Iqbal Masih, il ragazzino pakistano che ha lottato contro il lavoro minorile. A suo avviso, infatti, un romanzo deve anche essere segno di un impegno etico e civile e deve comunicare un messaggio positivo ai suoi lettori. E, in un mondo come quello odierno, in cui ricompaiono i fantasmi del razzismo, dell’ingiustizia, dello sfruttamento è necessario conoscere e presentare personaggi reali pieni di coraggio, che si sono battuti per la libertà, per la giustizia, per l’uguaglianza.
Il professor D’Adamo ha aggiunto che l’ispirazione per narrare la storia di Harriet – chiamata anche ‘Generale Tubman’ per il suo coraggio – gli è venuta quasi per caso, ascoltando degli spirituals che evocavano l’Underground Railroad, la strada percorsa da migliaia di schiavi negri alla ricerca della salvezza. L’Underground Railroad ha poi condotto il professore sino ad Harriet. Resosi conto che in Italia non la conosceva quasi nessuno, gli è balenata l’idea del romanzo, nel quale c’è un connubio tra realtà e finzione, in quanto, accanto a persone realmente esistite come Harriet Tubman e John Brown, ci sono appunto personaggi di fantasia, come Billy Bishop e la sua simpatica fidanzata Mary Ann, che arricchiscono la trama narrativa della vicenda.
E se, come dimostra l’intraprendente Billy Bishop, le storie da raccontare e le battaglie da perseguire possono essere quelle giuste anche se non finiscono in prima pagina, Harriet e Martin Luther King testimoniano infine quanto sia importante essere forti e coraggiosi nel seguire i propri ideali. Perchè “I sogni talvolta si avverano, ma bisogna crederci e lottare per realizzarli”.
Un grazie allora al prof. D’Adamo, perché la lettura di “Oh, Harriet” aiuta i ragazzi a diventare più forti e resilienti. Con una marcia in più per realizzare i loro sogni di bontà e di giustizia e rendere il mondo migliore.
dopo la mia del settembre scorso, eccomi di nuovo a scriverle. Per augurarle, pur nella sopravvenuta cecità, di vivere il più a lungo possibile. E festeggiare magari 100 anni, il 6 settembre 2025.
Quest’augurio lo faccio innanzitutto perché lei possa godere il più possibile dell’affetto dei suoi cari, delle sue figlie, di nipoti ed amici, dell’odore del mare, del garrire delle rondini, del sapore delle triglie fresche, del profumo della zagara …
E poi - lo confesso - è un augurio interessato: principiai a leggere, in ordine rigorosamente cronologico, tutte le sue opere, i Montalbano e i romanzi storici. E mi piacissi assai che lei fussi ancora vivu quannu iu saria arrivata a leggiri li so penultimi libri (Il metodo Catalonotti – I tacchini non ringraziano …) .
Picchì, puru si sugnu cchiu picciotta, aiu però la so stessa anima siciliana: nun sugnu di Vigata, ma nascivu dda vicino. E cchiddu ca scriviti, iu mi lu sentu nna l’arma e dintra lu cori, prima ca ni li me pinseri. E avissi l'ardiri di discutiri macari cu lei ...
Finivu ora di leggere “Un filo di fumo” e “La strage dimenticata” e mi piaciruno accussì assai che li voglio rileggeri ancora, prima di rennili a lu me amico caro, lu prufissuri Aldo, che gentilmente mi li mpristò e similmente m’impresterà tanti autri so libra.
“Un filo di fumo” è una genialata: c’è tutta la Sicilia di fine Ottocento, ddà dintra …
“La strage dimenticata” è la ricostruzione di un delitto assurdo verso 114 ergastolani, i cui poveri nomi (doppu Gaetano Attard) lei restituisce alla verità storica e alla memoria.
Grazie, Camilleri: viva la giustizia, viva la libertà, viva i diritti umani.
E buon 25 aprile a vossia, vecchio comunista intelligente, colto e libertario.
(dal testo di Andrea Cozzo “Conflittualità nonviolenta - Mimesis, Milano, 2004, €18, pagg. 69/85 - letto nell'ambito delle Cenette filosofiche, appuntamento di discussione quindicinale pensato dal filosofo in pratica prof. Augusto Cavadi)
L’espressione “soluzione nonviolenta dei conflitti” (…) va intesa nel senso di trasformazione o trascendimento nonviolento dei conflitti (…).
Se la violenza è la brutalizzazione del conflitto, la nonviolenza è l’altro modo (quello senza brutalità) per affrontare il conflitto. La nonviolenza, ben al contrario di come una certa vulgata la vorrebbe far apparire, è conflittualità. (…) Si può pensare la nonviolenza come una vera e propria arma, cioè come uno strumento dotato di efficacia rispetto allo scopo eticamente buono per cui è adoperato. (…)
Capitini ha scritto parole inequivocabili sul rapporto tra nonviolenza e lotta:
“E’ un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine,lavoro e sonno tranquillo (…).
La nonviolenza è guerra anch’essa o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie (…)”
Dunque la nonviolenza (…) è un’azione che apre un conflitto, è più che altro una gestione dei conflitti, all’interno di vere e proprie regole di strategia, seguire le quali richiede fermezza d’animo e disciplina. (…)
La nonviolenza serve anche a far venire fuori i conflitti latenti, per poi lavorare alla loro trasformazione. Perciò la nonviolenza è un atteggiamento mentale e uno stile di vita che si addice a persone dotate di coraggio e che hanno un desiderio costruttivo. (…)
La nonviolenza è resistenza attiva che si fonda sul principio che bisogna agire sempre in maniera tale che il risultato della propria azione sia una diminuzione della violenza complessiva . (…)
Il conflitto è accettato nella sua interezza, ma in una forma tale che l’energia non è impiegata per distruggere l’avversario ma per persuaderlo, e dunque preferendo provocare una sofferenza a se stessi piuttosto che a lui. (…)
La nonviolenza, scegliendo di soffrire piuttosto che di far soffrire, mostra di essere in fin dei conti nient’altro che amore consapevole e un grazie all’altro per la sua esistenza, al di là di ogni disaccordo e di ogni ostacolo. (…)
Gandhi dice esplicitamente che chi pratica il satyagraha “si propone di conquistare l’avversario o cosiddetto nemico non con la violenza. Ma con la forza dell’amore, attraverso un lento processo di conversione”. (…)
In un conflitto, anche quando riteniamo di doverci opporre interamente al nostro avversario, il nostro dovere è di opporci mantenendo la relazione. (…) Quanto più forte è l’azione di opposizione, tanto più è fondamentale rafforzare la relazione personale con l’avversario, garantirgli la propria fiducia, rassicurarlo e fargli sentire che, pur dissentendo e lottando una sua azione, si nutre verso di lui una sincera solidarietà umana.
“Crisci ranni” è il nome di un antico rito, diffuso in molte città del Sud, in cui - al suono delle campane che la domenica di Pasqua annunciano la resurrezione di Gesù - i genitori lanciano in alto i figli augurando loro di “crescere grandi”, cioè sani, buoni e ‘santi’.
Questa tradizione, particolarmente sentita nella cittadina di Modica (cittadina in provincia di Ragusa), ha dato il nome a un ‘cantiere educativo’, avviato in un’area abbandonata della città già nove anni fa e stilato proprio il 15 settembre 2010, in ricordo del martirio di don Pino Puglisi. Il progetto è nato col supporto della Caritas diocesana, della Cooperativa don Puglisi e di altre associazioni di volontariato del territorio; anche il Comune di Modica ha dato il suo contributo, ristrutturando i locali dove si svolgono le attività e concedendo l’area in comodato gratuito.
Nel cantiere educativo si aiutano i ragazzi dei quartieri vicini a fare i compiti, a imparare le regole della convivenza e del rispetto degli altri attraverso lo sport, si invitano i bambini a giocare e divertirsi insieme e a sperimentare la creatività. Vengono realizzati anche orti sociali per far favorire l’incontro tra le generazioni e sperimentare e potenziare l’attenzione alla natura e ai suoi ritmi; è stato poi attivato lo scambio di prodotti biologici e a chilometro zero attraverso i gruppi di acquisto solidale e di consumo critico. I momenti ludici e di socialità si intensificano soprattutto in primavera e in estate, con i tornei, i giochi e il “Grest”.
Il cantiere “Crisci ranni” si propone di favorire e incrementare ogni forma di cittadinanza attiva per costruire una politica sociale non legata solo all’erogazione di servizi, ma al progetto di una città solidale ed inclusiva.
“Nel cammino che ‘Crisci ranni’ propone c’è lo spessore dell’educare – ha dichiarato a tal proposito il professore Maurilio Assenza – l’educare come arte paziente, sommersa, che fa crescere la città. La presenza degli insegnanti ricorda che c’è anche un accompagnare la città da parte di tanti che, nel silenzio, fanno crescere le nuove generazioni”.
Ogni anno, un sabato dopo Pasqua – quest’anno la data scelta è sabato 4 maggio – si celebra una grande festa cittadina, con al centro la ripresa del rito e il desiderio di incontrarsi per rinnovare cammini di fraternità e di accoglienza, pur nel rispetto delle varie diversità. Perché – sostengono i volontari di “Crisci ranni” - le città non sono solo cumuli di pietre, ma hanno un’anima, che va nutrita e curata. Infatti, come è scritto nel patto educativo: “Ci sta a cuore la nostra città (…) vorremmo per essa la misura dello sguardo dei genitori che hanno cura dei propri figli, dello sguardo attento degli altri, dello sguardo memore delle grandi tradizioni del passato, vigile sui problemi del presente, fiducioso e responsabile per il futuro comune”.
E, come non si stancava di ripetere don Pino Puglisi: “Se ognuno fa qualcosa, insieme possiamo fare molto”.
M.Chagall: La Crocifissione bianca (1938) - Chicago
C’era un tarlo, da sempre, nei pensieri di nostra signora: perché c’è il male umano nel mondo? Non quello fisico e naturale: si sa, le cellule possono impazzire, i fiumi a volte straripano, le faglie sotterranee si scontrano e causano terremoti … Di tutto questo, può farsene una ragione.
E’ la mano armata dell’uomo contro il suo simile, è la tortura a chi non la pensa come te, è l’impiccagione di Dietrich Bonhoeffer, è l’annnientamento di Edek Galinsky e Mala Zimetbaum che nostra Signora non riusciva ad accettare e a capire …
Con l’amato Francesco Guccini, si chiedeva “Come può l’uomo uccidere un suo fratello” e se accadrà mai che la società potrà essere armoniosa e nonviolenta …
Sentiva una pena indicibile per tutti i crocifissi del mondo, da Gesù di Nazareth a … Giacomo Matteotti; … a Placido Rizzotto, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; a … Stefano Cucchi, ad Anna Politkovskaja e Anna Frank …
Allora, un pensiero e un impegno: se c’è chi inchioda altri uomini e altre donne, una madre non potrà che adoperarsi per togliere più chiodi possibili dalle mani e dai piedi dei suoi simili.
Spunti tratti dalla Liturgia penitenziale: chiesa san Francesco Saverio – Palermo, 15 aprile 2019.
Notre Dame de Paris: gargoyle
Mt 25,35-40
Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.
(…)
La parola accoglienza è composta dalle particelle a, co e dal verbo lègere (raccogliere, mettere insieme). La particella a implica la vicinanza, il movimento verso l’altro, non solo e non necessariamente in senso fisico, ma per condividere qualcosa (l’abitazione, il tempo, lo spazio, il denaro, il lavoro, ecc.); e, facendo questo, (con) legarsi accorciando le distanze, mettendosi accanto con pari dignità con chi ti sta vicino e davanti. Non c’è accoglienza quindi senza relazione con l’altro e senza apertura all’altro. L’accoglienza è altro ed è più dell’ospitalità, presuppone l’ospitalità, ma non si riduce a essa. L’accoglienza mi spinge a farmi carico del mondo dell’altro: cultura, religione, appartenenza, storia… mettendolo in condizione di conoscere ed accogliere la mia cultura, religione, appartenenza e storia. Sta qui la fatica dell’accoglienza: è la reciprocità che non è mai un soave duetto; esige mettersi in gioco e mettere in gioco le proprie certezze e comodità. Vuol dire abbracciare le incertezze e le scomodità dell’altro. Accoglienza vuol dire, in una parola, costruire ponti per mettere in comunicazione due sponde, due persone o due gruppi che potrebbero avere posizioni opposte su questioni importanti. Ponti sufficientemente alti e solidi per non essere travolti ed abbattuti dalle valanghe dei pregiudizi e delle falsità. L’accoglienza è fatica se è intesa come accompagnamento paziente, tutela delle fragilità più o meno vistose e promozione di percorsi di reciprocità attraverso la conoscenza e l’assunzione di responsabilità. Chi decide di accogliere decide di andare oltre i confini delle proprie conoscenze e delle consuete sensibilità. Decidere di aprire cuore e intelligenza prima che le proprie braccia all’altro e al diverso. Non si improvvisa e non si può imporre. La si può però testimoniare. Accogliere responsabilmente è ginnastica quotidiana che aiuta a trasformare la mancanza in presenza, la lontananza in prossimità e la fatica in gioia condivisa.
(Don Nunzio Galantino)
“Ciò che conta non è fare molto, ma mettere molto amore in ciò che si fa”
Madre Teresa di Calcutta
“Prima di pensare a cambiare il mondo, fare le rivoluzioni, meditare nuove costituzioni, stabilire un nuovo ordine, scendete prima di tutto nel vostro cuore, fatevi regnare l’ordine, l’armonia e la pace. Soltanto dopo, cercate delle anime che vi assomigliano e passate all’azione”.
Platone
“Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile”.
Hanna Arendt
“Se ognuno fa qualcosa si può fare molto”. p. Pino Puglisi
“Trovo che se sto pensando ai miei problemi e al fatto che a volte le cose non sono come desidero che siano, non faccio alcun progresso. Ma se mi guardo attorno e vedo cosa posso fare, e lo faccio io progredisco”.
Rosa Parks
“Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”.
San Francesco d’Assisi
“È sempre il momento giusto per fare quello che è giusto”. Martin Luther King
Dio di misericordia, Ti preghiamo per tutti gli uomini, le donne e i bambini, che sono morti dopo aver lasciato le loro terre in cerca di una vita migliore. Benché molte delle loro tombe non abbiano nome, da Te ognuno è conosciuto, amato e prediletto. Che mai siano da noi dimenticati, ma che possiamo onorare il loro sacrificio con le opere più che con le parole.
Ti affidiamo tutti coloro che hanno compiuto questo viaggio, sopportando paura, incertezza e umiliazione, al fine di raggiungere un luogo di sicurezza e di speranza. Come Tu non hai abbandonato il tuo Figlio quando fu condotto in un luogo sicuro da Maria e Giuseppe, così ora sii vicino a questi tuoi figli e figlie attraverso la nostra tenerezza e protezione.
Fa' che, prendendoci cura di loro, possiamo promuovere un mondo dove nessuno sia costretto a lasciare la propria casa e dove tutti possano vivere in libertà, dignità e pace. Dio di misericordia e Padre di tutti, destaci dal sonno dell'indifferenza, apri i nostri occhi alle loro sofferenze e liberaci dall'insensibilità, frutto del benessere mondano e del ripiegamento su se stessi. Ispira tutti noi, nazioni, comunità e singoli individui a riconoscere che quanti raggiungono le nostre coste sono nostri fratelli e sorelle.
Aiutaci a condividere con loro le benedizioni che abbiamo ricevuto dalle tue mani e riconoscere che insieme, come un'unica famiglia umana, siamo tutti migranti, viaggiatori di speranza verso di Te, che sei la nostra vera casa, là dove ogni lacrima sarà tersa, dove saremo nella pace, al sicuro nel tuo abbraccio.
Caravaggio: Flagellazione di Cristo (1607/8) - Napoli
Avremmo bisogno delle più belle rappresentazioni dei più grandi artisti, per potere entrare nell’atmosfera di questa narrazione con la quale i più grandi pittori, scultori cristiani - e anche laici - si sono voluti confrontare nella percezione che, in quest’evento della morte e del crocefisso, c’è qualcosa di misterioso che ci lascia sospesi tra cielo e terra, come la croce innalzata.
E avvertiamo che c’è una passione misteriosa che ci riguarda, una condivisione che ci viene facile fare nostra. E la seconda lettura ci ha dato la chiave per entrare in questo mistero che ci avvolge: è un inno tra i più antichi che siano stati composti dai cristiani, recepito nella Lettera agli Efesini: Cristo, pur essendo di natura divina, non si è presentato a noi in forma divina, ma in forma di servo, paziente, che lava i piedi, che sceglie l’ultimo posto, che vuole togliere il peso dalle spalle di tutti.
Anche il mito antico aveva immaginato qualcosa del genere, vi ricordate Atlante che porta il peso del mondo … Ma solo Dio può fare tutto questo. E lo fa proprio perché patisce, soffre, di una passione per la nostra umanità L’ideale greco era stato l’atarassia, l’impassibilità, raggiungere questo stato d’animo dell’imperturbabilità di fronte alla vita. E, con l’ideale greco, anche l’ideale di alcuni rispettabilissimi percorsi religiosi.
Ma l’ideale del cristiano è la passione di nostro Signore per noi. Dio è ‘patito’ per la nostra umanità, Dio è visceralmente preso dalla nostra umanità … E farebbe l’impossibile per evitarci di soffrire, come ogni Padre e Madre desiderano per i propri figli. E ancor più di noi, Gesù vuole assorbire tutta la sofferenza in sé perché vuole liberarcene: vorrebbe rendere più leggera, più sopportabile la nostra vita.
E il perché è nascosto nel cuore di Dio, nel suo amore per noi, che lo rende capace di tutto questo. E qui gli artisti hanno avuto la difficoltà a dare forma a ciò che viene intravisto dalla persona di Gesù: l’amore infinito di Dio stesso per noi.
Ed è l’amore che fa fare cose impossibili. E allora, care sorelle e fratelli, celebriamola così la passione del Signore: facciamola nostra questa passione, quest’amore, questo desiderio di togliere sofferenza, pesi, dalla vita degli altri. Non perché ci piace soffrire, no, non è bello soffrire per nessuno.
E non coltiviamo sofferenza, come se la sofferenza fosse salvifica. Non lo è. E’ salvifico solo l’amore, che rende capaci di sopportare anche sofferenza. Ed è a quest’amore di Dio per noi e con noi che noi vogliamo attingere, in questa santa settimana per ri-orientare i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre scelte, le nostre valutazioni sulla vita. (...)
(omelia pronunciata da don Cosimo Scordato il 14.4.19 nella chiesa di san Francesco Saverio a Palermo: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)
(dalla pag. FB di Agata Pisana, che ringrazio, uno stralcio dell’omelia di p.Giovanni Salonia:
“Siamo travolti dalla vitalità dell’uomo morto: sono venti secoli che Lui ci parla! Si sentono forti, uniti i Giudei: loro hanno la sensazione di fare la cosa giusta e sembra non si accorgano nemmeno che stanno invocando un delitto. Caifa lo aveva detto: è meglio che muoia uno solo. Sono entrati nell’orgoglio e la loro preoccupazione ormai è solo che non accada che non hanno ragione e siano folla. Paradossalmente, è proprio questo che li rende folla.
Ma dove c’è Dio non c’è folla, perché chi ama chiama per nome, ad uno ad uno. Qualcuno che è rimasto indenne della folla resta sconvolto: gli uomini stanno uccidendo Dio! Lo provocano, gli chiedono di dimostrare che è Dio, ma Cristo è il Dio dell’amore e diventa al contrario il loro avvocato: Padre, perdona loro… Questo è Dio, il nostro Dio! Non è colui che risolve le nostre questioni e ci toglie i problemi, non è colui che ci fa scendere dalle nostre croci! No: è colui che ci ama e non ci abbandona anche se siamo sulla croce. Padre, perdona loro… Cristo anche sulla croce continua a dialogare col Padre, a sentirlo vicino, e questo ci insegna a fare: sentire sempre Dio vicino e continuare a parlare con Lui. Sempre, perché Lui ci parla, sempre. [...]
Ed è bello che alla fine della vita il corpo di Cristo morto trova un altro Giuseppe che se ne prende cura e che lo depone nel sepolcro. Giuseppe lo aveva accolto e cresciuto e ora un Giuseppe se ne occupa. Si ricompone così quasi la famiglia di Nazareth: Maria, Giuseppe e Gesù... la scena più bella di questa vita, la scena più bella della storia”.
Le undici classi della “Cesareo” che hanno letto “Oh, Harriet”, aderendo al progetto lettura adottato in collaborazione con la libreria cittadina Modusvivendi, hanno vissuto un momento unico ed emozionante: l’incontro con l’autore, il prof. Francesco D’Adamo che, in un’ininterrotta e generosa maratona, ha incontrato gli alunni nel salone della DD “E.Salgari”.
Nel corso della mattinata, l’autore di “Oh Harriet" ha sottolineato che quasi tutti i suoi romanzi narrano storie vere, come quelle di Iqbal Masih, il ragazzino pakistano che ha lottato contro il lavoro e lo sfruttamento minorile.
A suo avviso, infatti, un romanzo deve anche essere segno di un impegno etico e civile e comunicare un messaggio positivo al lettore. E, in un mondo come quello odierno, in cui ricompaiono i fantasmi del razzismo, dell’ingiustizia, dello sfruttamento è necessario conoscere e presentare personaggi reali pieni di coraggio, che si sono battuti per la libertà, per la giustizia, per l’uguaglianza.
“Ma – ha continuato l’autore – nonostante prediliga trattare uomini e donne esemplari della contemporaneità, con “Oh, Harriet” ho raccontato una storia di due secoli fa: quella di una donna minuscola, debole, malaticcia, Harriet Tubman, che ha lottato tenacemente per dare la libertà ai neri, schiavi dei padroni bianchi negli stati del sud degli USA, sino al 1865.”
L’ispirazione per narrare la storia di Harriet – definita il Generale Tubman per il suo coraggio – gli è venuta per caso, ascoltando degli spirituals che evocavano l’Underground Railroad, la strada percorsa da migliaia di schiavi negri alla ricerca della salvezza. Dall’Underground Railroad, il prof. D’Adamo è arrivato ad Harriet, scoprendo che in Italia non la conosceva quasi nessuno. E allora è nata l’idea del romanzo, nel quale c’è un connubio tra realtà e finzione, in quanto – accanto a persone realmente esistite come Harriet Tubman e John Brown – ci sono personaggi di fantasia, come Billy Bishop e la sua simpatica fidanzata Mary Ann, che arricchiscono la trama narrativa della storia.
L’autore ha poi concluso affermando che leggere è sempre un momento di crescita, in quanto ci ‘obbliga’ a uscire fuori dal nostro mondo privato e a confrontarci con l’alterità. E ci invita a metterci nei panni dell’altro, facendo un importante esercizio di identificazione col ‘diverso’: “Io divento Harriet e capisco i suoi problemi, le sue lotte, la sua fame di libertà e di giustizia”.
Grazie, prof. D’Adamo: dopo aver letto il suo libro ci sentiamo più forti e resilienti.
Con una marcia in più per realizzare i nostri sogni di bontà e di giustizia e rendere il mondo un po' migliore. (da qui e qui)
Maria D’Asaro, Silvia Borruso (Docenti Laboratorio giornalistico “G.A.Cesareo” – Palermo)
Una volta ho dovuto spiegare a un bambino che la lapidazione non è quando tolgono i peli, il bambino aveva capito un’altra cosa …
Era una cosa terribile far morire le persone sotto i colpi di pietra. Questo brano ha avuto difficoltà a essere inserito nel Vangelo perché era tale la resistenza a una concezione della donna diversa dall’essere solo peccatrice e provocatrice di peccato, tanto che la stessa comunità cristiana ebbe difficoltà a riconoscere questa pagina come parola di Dio.
E così poi fu inserita nel Vangelo di Giovanni. Ma menomale che è stata inserita questa splendida pagina che è una liberazione da mille cose. Intanto è quasi una cosa comica che portano a Gesù una donna adultera come se l’adulterio l’avesse fatto da sola. E magari l’adultero era tra quelli che stavano scagliando la pietra perché, chissà, era colpa della donna se aveva peccato, perché sono le donne che fanno peccare gli uomini, secondo una certa idea. (...)
E quindi Gesù invita subito tutti i presenti a chiedersi: “C’è qualcuno senza peccato?” . Si sarà rivolto all’adultero, in primo luogo. Questo il Vangelo non lo dice, però mi piace pensarlo. Tra quelli che avevano la pietra in mano, probabilmente c’era anche lui. Che si sentiva autorizzato a giustificare quella che potremmo definire una forma arcaica di femminicidio – che ne dite? - La colpa dell’adulterio era della donna. E quindi si assembra questa frotta di persone dalle idee chiarissime nel condannarla.
L’atteggiamento di Gesù qual è? E’ di un altro mondo, cioè del mondo di Dio. Gesù si mette a terra, quasi ai piedi della donna (…). Non in piedi, ad additarla dall’alto della propria prosopopea, della propria santità … No. Si mette ai suoi piedi. E poi come la chiama? Donna, come ha chiamato la Madonna. Donna, non c’è niente che possa toglierti la dignità divina che hai, quant’anche avessi sbagliato. Gesù infrange ogni regola di legge e di buona creanza.
Qui comincia il Vangelo. Da qui in poi comincia la bella notizia di Gesù. Non che ci voglia che è indifferente anche una vita disordinata, no, questo no, non vuole dire questo.
Ma ci mette in crisi su ogni presunzione nostra di puntare il dito, di condannare, di volere ripristinare pene di morte – è stata ripristinata purtroppo l’altro ieri, non so in quale stato, non ricordo, dove hanno ripristinato la pena di morte contro gli omosessuali, gli adulteri … andiamo sempre indietro – dobbiamo vigilare sempre, stiamo facendo passi indietro, dobbiamo vigilare per non essere risucchiati continuamente verso il passato.
“Faccio nuove tutte le cose”, proclamava la prima lettura. Ma vogliamo avere il coraggio di guardare avanti? E di contemplare solo il Signore in croce che dà la vita per noi? Che muore per salvare tutti, soprattutto gli uomini presunti giusti, che sono, che siamo i più insidiosi, perché nel nome delle leggi, della buona condotta siamo pronti a far morire gli altri. Abbiamo sempre delle buone ragioni per permettere che gli altri muoiano, diciamo che non spetta a noi non trattare male gli altri, diciamo che non possiamo farci niente se gli altri muoiono.
Tutto questo è antievangelico. Dobbiamo scandalizzarci ogni volta davanti a questo Vangelo. Ripristinare positivamente lo scandalo della novità di Gesù. Troppo presto lo abbiamo assuefatto alle nostre abitudini, mentre il Vangelo è la novità di Dio che non finiamo mai di riscoprire.
E così la scena si chiude probabilmente con un abbraccio di Gesù verso questa donna: “Neanche io ti condanno” – le ha detto mentre le si sarà avvicinato – Non lo fare più.”
Ma non perché sarebbe in pericolo di morte, ma perché è bene che ognuno trovi la sua strada con la persona giusta della propria vita. Che è quello che desidera il Signore per tutti. Pronti a darci una mano d’aiuto in caso di difficoltà, in caso di smarrimento. Ma non a voltare le spalle come se la cosa non ci interessasse.
(il testo, pronunciato come omelia il 7.4.19 nella chiesa di san Francesco Saverio a Palermo da don Cosimo Scordato, non è stato rivisto dall’autore: eventuali errori o omissioni sono della scrivente, Maria D’Asaro, che si assume pertanto la responsabilità delle imprecisioni e manchevolezze della trascrizione)
Che
cosa hanno in comune Penelope,
la signora Maigret, la moglie del tenente Colombo, Livia, la fidanzata del
commissario Montalbano, la segretaria di
James Bond, Stella, moglie del principe di Salina, Santippe e Gemma Donati? Sono
donne - frutto di una felice ispirazione letteraria le prime, realmente
esistite le ultime due – vissute all’ombra dei loro celeberrimi mariti/compagni,
nel mondo della creazione artistica o nella vita reale.
Donne
in penombra (Editrice Kimerik, Patti, €13) è appunto il titolo
del delizioso
libretto di Mariceta Gandolfo che, compiendo quasi un’operazione di
matrice gestaltica di cambio di prospettiva tra la figura e lo sfondo, restituisceil diritto di parola a donne che hanno fatto
solo da sfondo ai loro uomini. A eccezione degli ultimi settant’anni, durante i
quali ci sono stati per le donne cambiamenti epocali - peraltro non diffusi in
tutto il pianeta, e forse neppure irreversibili - da che mondo è mondo gli
uomini sono ‘figura’, cioè sono in primo piano nella società, nella politica,
nell’economia, in tutti i posti dove si azionano le leve del comando e del potere.
Mentre le donne sono state da sempre relegate sullo ‘sfondo’, ai margini della
società. L’autrice inverte invece la prospettiva, e, nel suo testo, le figure
femminili, vive e palpitanti, sono protagoniste assolute di una personale
“resurrezione”.
La professoressa
Gandolfo dà prova poi di una notevole e approfondita conoscenza del clima
storico in cui sono vissute le ‘sue’ signore e le presenta con uno stile assai
gradevole e originale: adatta infatti il registro narrativo e stilistico al
contesto sociale di provenienza delle varie donne. Ad esempio, per presentare la
moglie del tenente Colombo, dà vita a un set cinematografico e si assiste a un
confronto serrato tra regista e sceneggiatore; la vicenda della signora
Maigret, stanca di aspettare “davanti a
una pietanza che le aveva richiesto ore d fatica e che si raffreddava e
induriva nel piatto”, è inserita in un intrigante raccontino dal sapore
poliziesco; per presentare Santippe, moglie di Socrate, viene imbastito un
dialogo maieutico, serio ed esilarante insieme; Gemma Donati, misconosciuta
moglie di Dante Alighieri, vissuta all’ombra della celestiale Beatrice, parla
con termini mutuati dal dialetto fiorentino della fine del 1200. Gemma, dopo
aver atteso inutilmente in vita che il sommo poeta le dedicasse almeno un
sonetto, si trova adesso in una sorta di aldilà e ci rivela “che l’è una cosa tutta diversa da come
l’aveva descritto mio marito, cosicché la prima volta che l’ho incontrato mi
sono tolta la bella soddisfazione di gridargli: «Ah Dante, Ah grullo, ma che tu ti
eri immaginato nella tua mente, ché non l’hai imbroccato in niente codesto posto!»
e lui si è talmente offeso, che mi ha evitato per trecento anni.”.
Ma la forza del
libro non risiede solo nell’eccellente capacità dell’autrice di farne un
delizioso divertissement di riscossa femminile: i ritratti a tutto tondo della
segretaria di James Bond, di Santippe, della moglie del principe di Salina,
alias il Gattopardo, persino di una delle protagoniste più note delle fiabe, la
bella addormentata nel bosco, sollecitano
e muovono anche le corde della riflessione sulle attese, sulla secolare
emarginazione, sulle ingiustizie da sempre subite dalle donne.
Per fortuna, le “donne
in penombra” sono capaci di ribellione e cambiamento creativo: ecco Penelope
che, dapprima chiusa nella sofferenza dell’attesa di Ulisse, poi delusa dal suo
rientro, maturala sua singolarereazione/vendetta dopo l’ennesima, e forse
definitiva, partenza dell’ingombrante marito; ecco l’imprevista reazione di
Livia, condannata al ruolo di eterna fidanzata all’ombra del commissario
Montalbano; ecco infine, nell’ultimo racconto, l’invito accorato a tutte le ‘belle
addormentate del mondo’ “a tenere gli
occhi bene aperti e non lasciarsi condizionare da tutti i falsi miti dell’amore
eterno e del matrimonio perfetto, come unica condizione di benessere e di
felicità”: perché nessuna donna sacrifichi all’altare di un qualsiasi
principe azzurro la sua dignità, la sua intelligenza, la sua vita.
Dipsy, la creatura che mi ha fatto compagnia per otto anni
Muto,
mestamente assorto
mi guardi passare:
purtroppo invecchi anche tu.
Canuzzo ...
(Per andare a scuola, percorro ogni giorno a piedi un vicoletto. Nel cortile di una casa che vi si affaccia, c'è un bastardino che, per anni, al mio passare abbaiava come un forsennato. Poi ha abbaiato sempre più piano. Ora è zitto zitto, incapace persino di muoversi ... )
Se c’è un alunno che non si dimentica mai, è l’alunno perduto: quello che non si è riusciti a promuovere.
La referente alla dispersione scolastica ha poi in testa e nel cuore anche i ragazzi dispersi, quelli che hanno abbandonato la scuola. Uno le aveva donato il disegno di un cavallo, prima di eclissarsi in chissà quali percorsi; una le sorrideva spesso, ma diceva di no con lo sguardo; uno preferiva andare a vendere i fiori al cimitero e chiedere la mancia a chi posteggiava; c’era poi chi, in presidenza, le aveva augurato di “ittari sangu di tutti i pirtusa”. Quest’anno né lei, né l’assistente sociale, nè il giudice minorile sono riusciti a riportare a scuola G., che ora nel quartiere fa le “impennate”, con un motorino rosso e senza casco. Alla prof. non rimane che pregare per lui: perché, per strada o nella vita, non si faccia male …
Dal sito di "Azione nonviolenta", ecco cosa scrive Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento:
"La lobby delle armi e' passata all'incasso della cambiale elettorale. Salvini e la Lega, con l'appoggio prostituito dei Cinque Stelle, hanno ripagato il sostanzioso aiuto ricevuto da chi le armi le produce e le vende, con enormi fatturati.
Non e' un segreto l'attivismo politico del Ministro tuttofare dimostrato ad Hit Show, la Fiera vicentina di armi e munizione. E non e' un caso se nel cuore della produzione armiera italiana, tra Brescia e Bergamo, la Lega raccoglie una media del 35% dei voti, con punte del 40%.
L'intreccio armi-politica fa scuola in tutto il mondo. Salvini e' uno scolaretto che si ispira in questo ai suoi maestri, da Trump a Putin, da Bolsonaro a Erdogan. Basta leggere un po' di cifre di come la facile diffusione delle armi corrisponda ad un aumento della insicurezza. Stragi e morti per armi da fuoco sono in aumento vertiginoso negli Stati Uniti e in Brasile, in Russia e in Turchia gli affari sporchi della politica sono sempre piu' intrecciati al mercato armiero.
Il guaio e' che a guadagnarci sono i fabbricanti d'armi, ma a rimetterci sono i cittadini, sempre meno liberi e piu' a rischio con leggi liberticide e autoritarie.
Drogare l'opinione pubblica con la paura percepita di furti e rapine, e garantire l'impunita' a chi spara per difendersi, e' la diabolica manovra che ha portato all'approvazione della legge con il consenso di larga parte dell'opinione pubblica. Un boomerang che si ritorcera' sul cittadino due volte vittima: della propria arma e della politica senza scrupoli.
Oggi al Senato ha vinto l'industria delle armi; la prima vittima e' stata la democrazia."
(mio padre, dopo aver dismesso la carica di sindaco del suo paesino e non avere trovato lavoro come sarto, a Palermo ha gestito una tabaccheria per circa quindici anni - anni 1970/84 circa - durante i quali ha subito alcuni furti e varie rovinose rapine. Durante una di queste, gli sono stati sottratti valori per i quali ha dovuto lavorare gratis nove mesi per rifondere il proprietario della rivendita di tabacchi. Nel corso di un’altra rapina, lo hanno leggermente ferito per sottrargli anche il portafoglio.
Papà non ha mai chiesto il porto d’armi né pagato “il pizzo”. Affermava che le forze di polizia dello Stato avrebbero dovuto presidiare e controllare meglio il territorio. Da buon cristiano, sono certa che abbia pregato per i suoi rapinatori … Mio padre era un santo? Era un uomo con i suoi pregi e i suoi limiti. Con una saggezza frutto della sua formazione etica e civile.) Maria D'Asaro