Esistono nel buddismo pratiche che aiutano la scoperta dei territori del cuore, insegnano a entrarci, percorrerli, spazzarli e abitarli, e a sentire la mancanza quando siamo altrove. E a non confonderli con le nostre idee sentimentali e con le instabili emozioni.
Si chiamano Brahma-vihãra, che significa «dimore divine», dette anche «gli incommensurabili». Esistono luoghi come l’universo, che non si possono misurare: il cuore è uno di questi luoghi.
Le dimore divine sono quattro: mettã, la gentilezza amorevole; karunã, la compassione, muditã; la gioia per la gioia dell’altro; upekkhã, l’equanimità. (…)
Mettã (la gentilezza amorevole) va chiamata, e lei risponde. Desiderarsi gentile non significa essere sempre avvolti da un sorriso e dire di sì a tutti. È un orientamento: ci volgiamo verso l’amorevolezza e ci lasciamo trasformare.
Mettã è benevolenza, coltivare la capacità di benedire, e benedire tutto e tutti, chi ci piace e chi non ci piace, chi ci salva e chi ci opprime. Per questo, il suo esercizio ci invita ad allenarci inviando il bene a varie categorie di esseri, con frasi semplici e non manipolatorie, non volte ad ottenere alcunché ma solo ad ammorbidire il proprio cuore. Dico esseri e non persone, perché animali e alberi sono inclusi.
Si porta per primo al cuore un benefattore, qualcuno che ci ha fatto del bene. E si inviano silenziosamente frasi ampie come «Che tu possa stare bene e essere contento, che tu possa vivere protetto, che tu possa vivere con facilità». Si tiene presente, vivo, l’altro essere e si manda la benedizione senza attaccamento al risultato, senza preoccuparsi di raggiungerlo: solo un invito, solo un dono. E ci si mette in ascolto di cosa succede al nostro cuore.
Si passa poi ad inviare gli stessi auguri di bene a se stessi. E in questo caso, oltre a comprendere le frasi che si inviano, ci si ferma a riceverle. Cosa non da poco e non scontata, saper ricevere il bene da se stessi.
Segue un essere che consideriamo amico o amica del cuore, qualcuno che ci fa nascere involontariamente un sorriso. Mandargli il bene è la prosecuzione di quel sorriso.
Evochiamo poi un essere neutro, non ci piace né ci dispiace particolarmente, qualcuno che sta un po' sullo sfondo della nostra vita, una comparsa, un passante. Riconosciamo la sua vita, la benediciamo, inviamo le frasi di gentilezza amorevole per il semplice fatto che esiste.
Si passa poi al cosiddetto «nemico», qualcuno che ci ha ferito. Cosa accade al cuore augurandogli il bene, senza cancellare il male, ma ospitandolo in nudità?
Si conclude inviando il bene a tutti gli esseri in tutte le direzioni dello spazio.
Mettã ci porta così a una non ricercata, non insistita coralità. Pian piano viene da sé che il cerchio del canto si allarghi e raggiunga tutti gli esseri, senza distinzioni.
Un piccolo essere che canta benedicendo tutto quanto e tanti altri esseri che fanno lo stesso, un coro di benedizioni senza scopo e senza ricerca di prove, solo canto.
Certo, ci vuole allenamento, all’inizio può venire a galla l’odio, la ribellione, il disgusto. È perfetto: si nota, si sente e si inviano le frasi di auguri a se stessi.
Mettã non è immediata, ci vuole lavoro. Solleva le nebbie, il non sentito, il rancore, l’indifferenza. Va tutto bene, è il fango che si alza e viene a galla, per lasciar intravedere la limpidezza del cuore vuoto, il suo essere oltre la persona.
È importante non reificare questa pratica incommensurabile, questo luogo dove il cuore può rinascere, non farne una magia di controllo dell’esistenza propria e degli altri, è solo un canto, un augurio di bene, nient’altro (…)
Chandra Candiani Questo immenso non sapere Einaudi, Torino, 2021, pag.28,33,34,35