Palermo – Il film “L’abbaglio”, uscito nelle sale il 16 gennaio scorso con la regia di Roberto Andò e con la ormai collaudata presenza di Toni Servillo, Ficarra e Picone, narra alcuni episodi della fase iniziale dell’impresa dei Mille: dalla partenza a Quarto, nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, alla conquista di Palermo, il 30 maggio successivo.
Un po’ come nel film precedente La stranezza, ma, ad avviso di chi scrive, con maggiore scioltezza e sapienza narrativa, ne L'abbaglio il regista alterna in modo assai felice due diversi registri: la serietà della ricostruzione storica, con Servillo che interpreta magistralmente un personaggio realmente esistito, il colonnello siciliano Vincenzo Giordano Orsini - prima ufficiale borbonico, poi a fianco di Garibaldi nell’impresa dei Mille - e i tratti godibili della commedia, con le vicende rocambolesche, e a tratti esilaranti, dei due personaggi di fantasia Domenico Tricò (Salvatore Ficarra) e Rosario Spitale (Valentino Picone), due siciliani trapiantati nel nord del continente, che si improvvisano aspiranti patrioti garibaldini perché vogliono, per motivi diversi, tornare nella loro isola.
Accolto dal favore del pubblico, L’abbaglio è un film apprezzabile, con una buona sceneggiatura e assai ben interpretato.
Per la scrivente, il film ha avuto un riverbero particolare: innanzitutto perché è nata in uno dei paesini interni menzionati nel film, paesino teatro di una delle vicende storiche narrate; inoltre, perché da siciliana doc conosce assai bene tutti i luoghi dell’epopea garibaldina, e rivederli nella pellicola le ha procurato una certa emozione. Poi perché da suo padre, come lei appassionato di Storia, aveva sentito il racconto di alcuni particolari sui ‘picciotti garibaldini’, particolari di cui il nonno del papà era stato testimone diretto.

Ancora, la spettatrice sicula si è ‘scialata’ (è stata assai contenta) di capire benissimo, senza l’ausilio dei sottotitoli, i coloriti dialoghi in dialetto tra Rosario e Domenico. Anche perché, come ha sottolineato la cara amica che con lei ha visto il film, Rosario/Ficarra e Domenico/Picone esprimono alla perfezione la capacità di comunicare propria della gente del Sud: immediato, ricco di sguardi, di gesti, di mimica… il linguaggio siculo non verbale è capace di superare ogni barriera.
Dal punto di vista di ex docente di Storia, chi scrive ha poi ripensato con disincanto a quel momento della storia siciliana e italiana: sa bene quanto fosse difficile nell’isola intorno al 1860 la condizione dei contadini e, più in generale, della massa dei meno abbienti… E di come questi ultimi avessero accolto Garibaldi e i Mille non tanto come liberatori dai Borboni per fare l’Italia unita, ma soprattutto come chi potesse liberarli da ingiustizie e miseria. Purtroppo, sebbene il 2 giugno 1860, con i suoi poteri speciali di dittatore, Garibaldi avesse emesso un decreto nel quale prometteva aiuti ai poveri e la tanto attesa divisione delle terre, la sospirata riforma agraria poi non ci fu.
Così, dopo l’annessione della Sicilia e del Meridione al Regno d’Italia, i contadini rimasero poveri come prima. Già nell’agosto del 1860 la controversa repressione di Bixio a Bronte, con processi sommari contro i presunti responsabili di alcuni fatti di sangue, aveva svelato la fretta e le ambiguità dei liberatori. E dopo il 1861 vi furono rivolte contro il nuovo governo e varie proteste contro la leva obbligatoria, che durava tra i quattro e i cinque anni e sottraeva braccia di lavoro ai campi. Nacque e si alimentò in tutta l’Italia meridionale il fenomeno del brigantaggio.
Il film ovviamente non si occupa di tali problemi, visto che il suo orizzonte narrativo è appunto compreso tra Quarto e la conquista di Palermo, nel maggio 1860.
Ma che in qualche modo l’impresa dei Mille sia stato un abbaglio, questa amara conclusione viene messa infine in bocca allo stesso colonnello Orsini, venti anni dopo l’impresa, a conclusione del film.
Tra i pensieri sparsi di chi scrive, c’è stato dunque anche il riemergere della frase assai nota “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, pronunciata da Tancredi, nipote del principe Salina, nel romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Forse non è stata sufficiente la pur eroica e generosa impresa di un manipolo di patrioti idealisti delle regioni del nord Italia, accompagnati anche da valorosi stranieri (tra essi l’ufficiale ungherese Lajos Tüköry, italianizzato, Luigi Tukory, morto a Palermo il 6 giugno 1860) e da picciotti siciliani con i più disparati interessi; non è bastato un cambio di re (da Borbone a Sabaudo) perché la mentalità dei siciliani, la loro situazione culturale, sociale ed economica cambiasse veramente.
Scrive in un giornale palermitano il giornalista Francesco Palazzo: “Se un film ti serve a pensare criticamente alla tua storia, è un ottimo prodotto culturale anche se dissenti. L'unità d'Italia non è stata un abbaglio. Ma l'apertura alla modernità, alla democrazia e alla legalità. Così come, aggiungo, non è un abbaglio l'Unione europea. Bisogna vedere cosa fai dentro la Storia” (…).
Comunque, la suggestiva potenza narrativa de L’abbaglio rimane intatta.
Grazie allora ad Andò, a Toni Servillo e soprattutto a Salvo Ficarra e a Valentino Picone, che hanno rispolverato un’importante e impegnativa pagina di Storia siciliana e italiana, facendoci riflettere. Ma anche, per fortuna, sorridere e divertire.